« Come ha potuto Cagliostro compiere tutti gli
spostamenti, di cui si narra, nel breve tempo della sua vita libera?»
« Vi cito al tribunale dell 'Acronologia.
Il Conte di Cagliostro ha 47 anni: altri dicono 45, ma diciamo 47. Dal 1771
fino al 1790 sono passati 19 anni dunque Cagliostro ne aveva 28 solamente:
dunque o il Conte di Cagliostro non è Giuseppe Balsamo di Palermo, o l'amico
vostro vi carica d'aneddoti supposti ed è incoerente nella cronologia».
L'ironia
dell'Amico napoletano non si ferma alla sola presunta età del l'imputato, ma si
estende alla sua stessa identità, poiché gli avvenimenti si complicano
ulteriormente: « Adesso saltano fuori due Balsami,
ambidue di Sicilia; ambidue Giuseppe di nome; ma uno nato in Palermo, l'altro
non si sa dove. Alcuni vogliono, che questo nuovo personaggio introdotto sulla
scena sia nato a Bililo nell'Isola di Sicilia; e che fosse figlio naturale di
un certo Marchese Kaffi. Si raccontano di lui molti aneddoti, che altri
attribuiscono al Balsamo di Palermo »
L'Amico
romano e quello napoletano sembrano concordare nell'identificazione di Cagliostro con Giuseppe Balsamo, ma conquale dei due?
Evidentemente
già all'epoca dovevano esistere dubbi intorno all'identità reale dell'imputato.
Goethe, con opinione
autorevole e documentata, conclude, come già aveva sostenuto, con molta minore
credibilità, Charles Theveneau de Morande (1741-1805) sul “Courrier de
l'Europe” negli anni 1786-1787, che Cagliostro e Balsamo sono la stessa persona, ma quale: il Balsamo
nato a Palermo o quello di origine più oscura?
Del
resto, qualora si consideri lo stridente contrasto esistente tra il profilo depravato, criminale e
millantatore dell'imputato, tracciato nel processo romano, ed il diffuso successo sociale, riscosso dal
Conte a livello europeo, gli interrogativi divengono ancora più fitti.
Successo,
popolarità e consenso che fanno dire al solito Amico napoletano, parlando delle
fantastiche apparizioni e rivelazioni da cui sarebbe scaturita la Massoneria
egiziana: « [è] innegabile, che il Cagliostro ha goduta la stima de' primi
personaggi in Francia, in Germania, in Polonia, in Russia, in Inghilterra. Li credete voi tanto deboli di cervello da
lasciarsi imporre con tali inezie?»
Ma
il misterioso Amico romano (portavoce letterario dell'Inquisizione) insinua
riguardo all'Amico napoletano, che solleva riflessioni critiche intorno al
processo: « [s]embra che sia pagato per difender
Cagliostro. State a vedere, ch'egli è uno degli Illuminati della Loggia di
Napoli; ed ecco il male di non estirpare gli alberi cattivi fino dalle radici,
col ferro e col fuoco. Io feci fede per voi, che non eravate un “Illuminato”
della malvagia razza de' seguaci di Cagliostro, ma che eravate un Filosofo
imparziale, che procura di ragionare sulle cose prima di adottarle. Anche
questa Filosofia, questa ragione [ ... ] basta, potrebbe venire il tempo che si
perdesse. Vedete i bei frutti che produce. La Francia [ ... ]. »
Dunque,
ragionare con la propria testa e sollevare dubbi significa difendere Cagliostro,
ed essere immediatamente ascritti alla Massoneria ed alla sovversione.
L'Amico napoletano
continua tuttavia ad incalzare con le sue domande, indiscrete per l'epoca ed il
luogo, alla ricerca di chiarezza almeno storica, se non giudiziaria, intorno
alla figura di Cagliostro: « Sono infiniti
i suoi delitti.
Ha rubato. … Perché dunque non sarà come ladro punito e condannato? … È stato in prigione tante volte, in Londra;e sempre n'è uscito con sotterfugi? … Le leggi della Gran Bretagna sono
rigorosissime contro i Ladri, e truffatori; e non so come il Cagliostro sia
sempre stato assolto dai tribunali di Londra. … In Francia fu posto nella Bastiglia: fu processato come complice di
truffa nello strepitoso affare della collana. Si difese: non fu trovato reo, fu liberato; ed ebbe l'esiglio. ».
La
risposta romana è coerente con lo spirito e gli intenti del Tribunale inquisitoriale:«Non parliamo né d'epoche né di prove.»
Monsignor
Barberi, al contrario, non ha dubbi intorno né all'identità né ai delitti del
reo.
Nel suo
testo, infatti, si cercano invano perplessità, interrogativi o anche semplici
incertezze, egli è perfettamente sicuro della sua verità.
L'impostazione
politica del processo rende ancora, se possibile, più arrogante la giustizia
pontificia e lascia in eredità agli odierni studiosi del caso giudiziario un
ulteriore interrogativo: perché nella sentenza non vi è traccia dei reati
comuni contestati all'imputato?
Forse
Cagliostro non ne aveva commessi in Roma?
Cassinelli
pensa ad un elegante espediente giuridico per superare la controversia intorno
alla sussistenza o meno del salvacondotto richiesto per Cagliostro dal
Vescovo-Principe di Trento Pietro Virgilio Thune, contenuto nella lettera di
risposta del Segretario di Stato Cardinale Buoncompagni.
Effettivamente
il salvacondotto era ambiguo: « Non avendo il signor Cagliostro alcun pregiudizio nello Stato Pontificio, non ha bisogno del
Salvacondotto che implora, col rispettabile mezzo di V. S. Ill.ma e Preg.ma.»
Viene,
a questo punto spontaneo chiedersi: “Perché Monsignor
Domenico Liberti, difensore della Chiesa, non eccepisce che la lettera,
riferita al salvacondotto, menziona Cagliostro, non Balsamo, sotto il cui nome
sarebbero stati commessi in passato i reati comuni di cui si parla, quindi, la
Segreteria di Stato ignorava che si trattasse della medesima persona?
Forse che il Sant'Uffizio non aveva realmente dubbi
intorno all'identità dell'imputato, oppure, durante il processo, forse, non voleva
neppure averne, e rifiutava ostentatamente anche solo di sollevare il
problema”.
Un
processo per reati comuni avrebbe dovuto vedere fra i testimoni dell'accusa
almeno alcune delle vittime delle truffe
e dei raggiri commessi da Cagliostro, mentre nel processo romano sono
completamente assenti queste deposizioni.
Scarso interesse al tema oppure paura di
eventuali confronti sull'identità del reo?
Certamente
il comportamento processuale e, poi, carcerario dell'imputato in questa
avventura romana si discostano molto
dalla istrionica e forte personalità manifestata nei precedenti frangenti anche
drammatici della sua movimentata esistenza.
Il
tempo era passato; l'uomo si era trasformato; il tribunale dell'Inquisizione fu
particolarmente abile nel domarne o nell'occultarne il carattere ribelle; oppure non siamo di fronte alla stessa
persona?
Forse, nel processo Cagliostro rivive la
farsa romana dello scambio di persona tra “Onofrio, Marchese del Grillo”
(1714-1787) ed un “povero carbonaio ubriacone”.
Tentare
di rispondere a queste domande, allo stato attuale delle conoscenze
disponibili, contribuirebbe esclusivamente a creare ulteriore confusione su
quei lontani avvenimenti.
La
condanna esemplare di Cagliostro (divenuto l’alias Giuseppe Balsamo) contrasta
visibilmente con la relativa tolleranza che le autorità usarono nei confronti
di altri episodi di Massoneria.
Oltre
alla già menzionata clemenza verso i componenti della Loggia romana della
Riunione degli Amici Sinceri, della quale parla Barberi stesso nell'ultimo
capitolo del suo libro, l'Amico napoletano ricorda l'episodio della Loggia
partenopea scoperta nel 1782:
«La loggia fu abolita; ma nessuno fu condannato. Tutta l'Europa fece
plauso ad una tale sentenza.»
Poiché, stando a quanto dice l'Amico, di questa Loggia, era capo il
medesimo Cagliostro, è difficile escludere che l'affermazione celi una facile
condanna per la gestione e l'esito processuale romano.
In ogni
caso, dalle pieghe di questo processo emergono indirettamente anche alcune
indicazioni intorno una realtà massonica del tempo.
All'indirizzo
magico-occultista ed a quello razionalista-illuministico sembra aggiungersi una
tendenza aristocratico-salottiera, che pare godere di una certa tolleranza da
parte del potere costituito.
Tolleranza
spiegabile, almeno in Roma, con il rapido pentimento di molti suoi adepti, che,“da rei prevenuti” si trasformano in “denunzianti di
Cagliostro”, ma
forse ancor più con la scarsa pericolosità sociale di un fenomeno dai contorni
più teatrali e ludici che filosofici o cospiratori.
Il
reato di appartenenza o di fiancheggiamento delle associazioni massoniche, così
come era concepito dall'ordinamento giuridico pontificio, avrebbe dovuto
colpire comunque anche quest'ultima tendenza, tuttavia, poiché, quasi sempre,
le ragioni giuridiche cedono il passo a quelle politiche, forse in questo caso
l'ambiguità di tale fattispecie giudiziaria consenti di percorrere la strada più
tradizionale del reato d'opinione, al fine di poter concretamente accertare
l'assenza di idee sovversive dello Stato e contrarie alla religione, nei
frequentatori dei salotti romani sospetti, come quello della principessa
Lambertini.
Se è
competenza dello storico cercare le verità fattuali, ossia ciò che realmente
accadde in passato, e del giurista le verità giudiziarie, ossia ciò che viene
definito vero attraverso un processo conforme a norme legittime e vigenti; il
sociologo del diritto deve fare i conti non solo con questi due tipi di verità,
ma anche con quelle sociali, ossia con ciò che l'opinione pubblica crede vero,
con l'uso politico delle verità giudiziarie e, nel caso di un'indagine che si
estende al passato, con quelle che Michel Foucault ( 1926-1984) definì regole
di formazione del discorso: « [ ... ] la legge di
esistenza degli enunciati, ciò che li ha resi possibili - essi e nessun altro
al loro posto; le condizioni della loro singola emergenza; la loro correlazione
con altri eventi anteriori o simultanei, discorsivi o no. »
Infatti,
quando si ricerca nello spessore della profondità storica, non si ha
direttamente contatto con gli eventi, ma con la altrui narrazione dei medesimi,
e con il discorso, appunto, che nel tempo si è sviluppato e stratificato
intorno ad essi.